Confesso che ho sbirciato. Prima dell’inaugurazione, mi ero intrufolato per qualche minuto nel work in progress dell’allestimento. Incompleto, ma struggente. C’era stata la complicità indiretta di un portone aperto e di una attrazione fatale… incrociando in terrazza l’entusiasmo a fior di pelle di Cristina e Nicola Mattera. E sono tornato per l’inaugurazione col cuore in gola, a collazionare conferme e sorprese automatiche.
Doveva accadere. Era nell’aria. Guarda! Cosa, dove? Lì, guarda lì. Non vedi? Ci sono Ugo Marano e Gabriele Mattera, si stringono la mano. Guarda bene, Gabriele ha il naso impercettibilmente arricciato, la bocca è distesa nel sorriso. Sì, Gabriele è contento. Molto. E guarda, guarda gli occhi di Ugo, estatici per l’incontro di mondi come il suo. È, il suo. No, tu non dire, continua a osservare: è tutto vero. La verità è il sogno che racconti. Che si realizza e fugge. Ma non può sfuggire, giusto? è da qualche parte. Dai, cercalo. Di nuovo, ancora e ancora.
Ugo Marano e Gabriele Mattera
Ti lascio il lusso di scriverlo. Qui, al Castello-Mondo, non perderti nulla, però. Sii sinceramente privo di lacci nel pregare e commuoverti. Non altro ti è dato. Ugo Marano è a casa. Con sé, s’è portato il popolo fedele. Cos’altro sono le liturgiche verticali ceramiche smaltate, ortostatici soggetti di culto, che dialogano in raccoglimento nella Chiesa dell’Immacolata? Hanno una qualità antropomorfica che – qui - si è definitivamente consacrata all’utopia, in un tempio bianco mai consacrato. Sono approdate in processione, riconoscendosi – domestiche terrecotte - via via nello spazio più creativo e generativo che c’è. Hanno adempiuto alla festa, faticano a ricomporsi, non smettono di muoversi e discorrere. A loro è concesso. Il principio è che non sono addomesticabili. Non dimenticarlo.
Il rito dopo il corteo è vibrante di danza e gioia: era da un po’ che non si adunavano, ricomponendo lo zampillo di lava, di super calore e d’energia, in un luogo così potente e paterno/materno, un posto da padreterno, dove si celebra la forza della Natura e delle argille. Ascolta, senti le lingue che parlano in coro, dialetti agricoli, litanie di sirenidi, canti in cantieri a riva? Familiari e migranti, piuttosto acquatiche, sono figlie dei mediterranei autarchici.
Eppure le stesse lingue stanno strette in questa dimensione geografica. Giacché odorano di meditazione e d’Oriente, delle civiltà d’Oltremuraglia, votate a mescolarsi – è la ceramica! - con la curiosità prometeica di un Marco Polo azzeccata d’incenso e ubriaca di conoscenza. E non è certo che non siano state pronte a sconfinare nei nidi della West Coast americana, chessò, fino al City Lights Bookstore di San Francisco, la mamma libreria di ogni giramondo. A me dice così, per l’assonanza della temperie culturale. A queste lingue e al coro, alla libidinosa commistione d’oggetti vivi perché quotidiani, esaltati nel ri-stare, ri-abitare, il talento da precursore di Ugo ha affidato la propria ermeneutica. Gioca nel ribaltamento pubblico-privato, nel senso – all’opposto di ciò che diceva il Kant più intimo – che la differenza, se la vuoi, è nel «dove sei e per chi», e non puoi svincolarti dalle immedesimazioni. E fa un effetto circolare: per entrare attraverso la porta girevole, devi cogliere l’attimo nell’incontro.
In dono, intanto, stiamo ricevendo l’abbraccio olistico e la bracciata a stile libero di Ugo. Sono movimenti afrodisiaci nel senso più etimologico che c’è: sono figli della schiuma (afròs) e della risacca che suona, si sdoppia, raddoppia. Capisci che l’eco di fondo non puoi racchiuderla in un testo, una foto, nella didascalia di una tradizione che è tradimento necessario, di una rivoluzione che continuo ad attendere con fiducia.
Provo a immaginare i colori spremuti che colano giù dal pugno che stringe i gelsi e l’uva; le forme arroventate, avventate tra cortocircuiti gravitazionali e vuoti ricchi di senso e sensualità sottovoce, i ferri, le ruggini, le pietre, i richiami. I soffi di vento e i ricami, i pomi di campagna, le salsedini volanti sull’antico veleggiare di profumi collinari nel cortile, di notte. Siamo contemporaneamente a Ischia, nell’isola piccola aragonese (patria di Gabriele); e a Capriglia di Pellezzano, nel Salernitano (patria di Ugo). Eccoci pronti alla raccolta sussurrata di ciliegie marittime, noci nere, mirti, tozzi di pane, zuppe, gesti persi tra nuvole nell’azzurro più terso. Ci dirigiamo alla meta con la propria metafora.
Non si può «amare il mare» senza esplorare, viaggiare.
E si va per rotte inedite con sestanti, stelle, e sonar e radar e satelliti che triangolano con le architetture rupestri, monumenti, micro villaggi presepiali che ci confermano da dove veniamo; rocce a picco, scogli. E palafitte primigenie e gambe basculanti, pigre contorsioni, grida, abissi, accoppiamenti, nascite, barche forse, terre lontane in navigazione. Le terre e le terrecotte non possono stare ferme.
Sedia dell'accoglienza
Si va dall’esterno all’interno. In mostra, qui accanto allo studio di Gabriele e al convento; in cattedrale per svelare la «Sedia dell’accoglienza» proiettata sull’ombra e la vertigo della baia di Cartaromana; intrecciando il «Tavolo della volpe e della cicogna» per cantare fiabe; e negli ambienti essenziali appena restaurati.
E, sopra il cimitero delle monache che conserva le sedute dell’oltretomba, si va per dialogare anche con i dintorni interiori. Stanno lì. Si torna alle iconiche seggioline allineate sugli altari, all’orizzonte della scena nell’Immacolata: in contrappunto totale, m’evocano alcune visioni della Città del Sole di Tommaso Campanella.
Ed è inutile, perciò, provare ad accomodarsi. La missione è scomoda. Ci aspettano ulteriori nuotate lunghe, lunghissime fino a toccare altra terra, altre parole che si pronunciano a spirale come gioielli, forse Occhi di Santalucia, portafortuna o sliding doors per l’eternità, respiri nella luce della classicità e nell’avanguardia, quella sì immortale, coniata negli Anni Sessanta e Settanta.
Che fantastica epoca brulicante di miti – Filiberto Menna, ricordi? stavano sempre insieme – ardeva nel focolare di Ugo, l’idolo assoluto! E già, Marano viene dal tempo e dalle stagioni che ho amato da ragazzo, quotidianamente sintonizzato controcorrente, fuorionda e saldo. L’ho evocato più d’una ventina di anni fa, mi pare, intervistando - a Posillipo - Filippo Alison, nume tutelare dell’Arredamento e del Design. Ci mettemmo a discutere di un tavolo di legno che mostrava le spaccature che sono il «destino dell’ulivo». Eh, vabbè. Nelle ferite c’è traccia di noi umani.
L’umanità di Ugo Marano è un collettivo/koinè di vasi dipinti con i nostri ritratti eterei, citazioni elladiche e volti archeologici non tumefatti dall’esperienza e senza crepe evidenti. Di fianco ci sono i paesaggi che puoi ricombinare a piacimento o girotondi di piatti e bacili, vaganti o allineati. Artigianalità pura. E c’è, bruciante, l’isola del sentimento. Cavolo, davvero non si riesce ad amare l’isola, o meglio, l’«io»? Noi siamo custodi, e dovremmo farcene una ragione, vestirci d’etica finalmente. Almeno rileggiamoci la poesia che sta all’ingresso, l’«Egostrumento» che è la cifra irta per avvicinarci all’identità speranzosa.
Si può?
La tensione alla ricerca di un centro concettuale, suggerisce affioramenti e immersioni nell’inesplorato, ed è rinuncia alle soluzioni conclusive. Si scioglie l’anima nell’impossibile e ci sta benissimo, là dove poesie visive e sonore (Ugo ti parla, qua e là, concentrati!) proseguono a dilatarsi, tra onde, frenesia e compitezza, vulcano, rivoluzione dei corpi (celesti), e incorporamenti. La lezione non ha bisogno d’approfondimenti. Occorrono ripetizioni. Mentre il genio d’artista (è di Marano, è di Mattera) ci saluta, non beffardo, ma consolatorio e limpido, dall’orlo della… lampada.
Ugo non c’è dal 2011, Gabriele dal 2005. Riesplode la certezza: l’atto creativo è la realtà unica e amica che ci resta, perché muta, si rinnova; i volumi, le figure fluidificano, le lettere e i versi si fanno beffa d’ogni fissazione, abbandonano la memoria e t’obbligano al concepimento dell’idea, la tua. Da condividere. Okay, questo ora è il bello dell’esposizione dei pezzi, delle opere, ma in più c’è il trasudamento della Storia che ri-plasma e inventa come solo al Castello-Isola-Mondo può accadere. Oggi, domani.
Spaesiamoci con gioia a casa nostra. La duttilità dell’arte al Castello raggiunge la summa della devozione terapeutica di cui s’avverte l’urgenza che direi… alimentare. Proprio lì, al «Tavolo dei semplici», c’è la dichiarazione della mensa e della mente. Perché di questo si tratta. Non ci nutrono le espiazioni, ma le aspirazioni, sfiorandoci gli indici. Come d’Adamo e di Dio, eh, oh! Sorridi: è creazione e cura. Benvenuto a casa, Ugo. Puoi tuffarti.
Casa mia
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LA MOSTRA
«Amare il mare».
Retrospettiva di Ugo Marano.
A cura di Antonello Tolve.
Chiesa dell’Immacolata, Castello Aragonese d’Ischia.
Fino al 30 settembre 2024.
La mostra è organizzata dall’Associazione “Amici di Gabriele Mattera”, con il patrocinio della Regione Campania, in collaborazione con la Galleria Paola Verrengia di Salerno e con un ringraziamento a Stefania Marano.
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