Castello Aragonese. Forse mi ripeto, e che fa. Ne vale la pena. Il Mediterraneo è qui. Non allontanatevi troppo. Si va. Ecco lo spartiacque, gli scogli, il pontile, e il ponticello sospirante sulla corrente. L’isola che c’è, il tunnel, l’ascensore, la pancia della fortezza, la brace e il vulcano. I giardini interiori e i gradoni, portali, volte e androni; altre scale, capperi e lentischi, fossili, un faro, graffiti, candori e misteri.
E vado alle solarità e penombre intervallate dall’opera magna di Gabriele Mattera – dominus indimenticabile – che ha dipinto i colori rilasciati dalla pietra filosofale. Gabriele, vivendo la monumentalità, ricreandola, ha tutelato vestigia, ridando vita ai paleo-ricordi; a segni, iscrizioni, disegni e metafore. A fregi, stucchi e pennellate giottesche d’un tempo, prodromo di preghiere e cenacoli, messe in latino e letteratura, condottieri e sovrani; voci di cortigiane e umili donne e uomini omessi dall’epica sfarzosa e malinconica di Vittoria Colonna, l’amica geniale di Michelangelo Buonarroti.
La lezione di Gabriele continua nell’impegno extra-ordinario dei familiari: Karin, Nicola, Cristina. L’eredità è una traccia indelebile anche nell’offrire spazi domestici, interni ed esterni, in dialogo e trasmutazione, agli innesti creativi di artisti che, per breve o per sempre, si castellanizzano. Le loro intuizioni dimorano nelle forme della Natura e delle chiese o nell’avanspettacolo sui golfi e le cale e gli strapiombi; sulle zoomate di Vivara fenicia, Procida corsara, Miseno romano, Cuma grecanica e i territori insondabili di una cartografia emozionale e oltremondana. Intimissima. Non si può clonare. E le artificiali intelligenze resteranno come anatre mute, ambigue “fate ignoranti” al cospetto.
Eccomi. Ci sono. E sto finalmente di nuovo a casa. C’è un Sacro a tinte volatili e cangianti: è un attentato felice all’obbligo della descrivibilità, all’empirismo del verbo. E soffia per diverbio sulle parole, le disperde. Immagini e didascalie si rompono e vanno a ricomporsi chissà come e dove, si restituiscono al mosaico rituale di ogni archivio umano. Puzzle o vortice di reciprocità. O, molto di più, concettualmente si fa Potlach. Il Castello è il principio del dono viaggiatore. Un invito ospitale al quale non si può rinunciare. La restituzione è il ritorno.
L’anno scorso avevo fatto filone. E mi sono pentito per un anno. Poi ho sognato quel femminone (dai, fatemi dire così) di Lucrezia D’Alagno, la signora di Caiazzo e dell’isola d’Ischia, che era la più bella del reame, e il desiderio s’è avvispato.
L’unica strada possibile era questa: tornare al Castello Aragonese per intrufolarmi nella Storia, respirarmi senza risparmio di fantasie, instupidirmi di Bello Possibile, e prenotare l’invocato momento del godibile/edibile: una cena al Monastero.
La brezza forte è preannunciata come aperitivo dell’attesa (calda) d’aromi freschi, il fucsia lontano intona un blues alla teoria del tramonto. In preludio c’è l’idea di andare a salutare il carrubo guardiano, di parlare all’Orto delle monache e alla Vigna col suo cru di Biancolella gaudente di salmastro che diventa “Castello”, straordinario vin de garage centellinato in 444 bottiglie!
Sto sulla retta via. Entro nel mio parco ludico. Oltre il dispensario di trecce cipollose e piennoli appesi al muraglione di levante, circumnavigo il girasole per pescare fichi e fichidindia e pomodori. Per coltivare totani e lampughe in un unico battito, capovolgendo i sensi e perdermi in una lista di divinazioni. La rotta qui è sorvolata ancora da gabbiani, quelli “reali” e impudenti; quelli “corsi” più piccoli e prudenti. All’orecchio, sciacquettio d’un cutter, tremolanti lampare, e palpabili scocciature di scafi libertini. All’occhio, barche ferme a doppia spina di pesce, incollate ai corpi subacquei e regalate al paesaggio di Ischia Ponte.
Quando Fiorella Tedeschi mi ha telefonato per avere conferma dell’appuntamento (vivaddio, si fa così), ho preso ad elencare – tra me e me - i piatti che il mio amico Michelangelo Iacono, cuoco di montanara genetica e voluttà speziata di basilico e timi serpilli, m’avrebbe preparato con la complicità d’un servizio preciso e cortese, elegante e familiare (alla fine ri-conosco tutti: da Marco Di Meglio ad Alessandra Migliaccio; e Michele Francia).
Ammetto di aver fatto un errore da principiante. Come potevo pre-vedere, come potevo pre-gustare, come avrei potuto pre-masticare la semplicità dell’autenticità? Sciocco, si, ma forse sono stato furbo, a posteriori. Come potevo non aspettarmi di essere sorpreso? E Michelangelo s’è divertito a fregarmi.
Decuplicazioni di stupore. Terrazza del vecchio convento a Ponente e sulla gloria; primo tavolo a destra, il lucignolo s’infiamma delicato e resiste per scommessa al Maestrale che sforacchia il gioco della sera. Foulard? Si, ci vuole. Il vino? Ovviamente è quello che nasce a cinquanta metri dalle nostre sedie.
Tre sono i menu, mutuati dai prodotti che passano in pochi attimi da raccolte dietro l’angolo e pescate costiere a meno di un miglio. C’è il «Vegetariano», denominazione per la dietetica universale, e sta lì, beato tra le foglie limonate.
Poi, «Merecoppe» che si traduce dall’antico come «Terre di sopra», ovvero le pendici fertili del Monte Epomeo, la cima dell’olimpiade saporita di vertigini contadine. Il terzo è il «Cala-cala», per sublimare lo scambio ittico-terricolo che ci ha partorito per virtù elladica e ci invita etimologicamente, tuttora, a «chiamarci, ad amarci». Michelangelo propone entrambi, potrei dire di “no” al messaggero che trasmette la genuinità ruspante con fini elaborazioni identitarie?
C’è una coerenza con il luogo che non ammette paragoni e scimmiottamenti: è la sintesi della cucina di chi, nobile, poeta, agricoltore, pescatore o devotissimo in estasi, da qui ha rincorso i secoli. E di chi ora l’abita e custodisce.
Eccolo, Nicola Mattera, l’artefice massimo del filo d’Arianna dei sentimenti senza segreti. È lui l’ideatore di una sobrietà sfiziosa e pantagruelica che mi riconquista, tra fuochi e mescite governate dai suoi collaboratori coi fiocchi: a lui va una riconoscenza schietta. Il saluto, il sorriso, la gioia.
Michelangelo, non ci distraiamo, che fai?
Il «benvenuto dello chef» è un’icona geometrica che stuzzica l’archeologia, pizzica l’orgoglio del pane e pomodoro e della mozzarella Dop. E allora? Abbassa le palpebre, stai un po’ qua e un po’ dove la passione sta per condurti.
Extravergine, grissini, pani e scioglilingua, frutti, dialetto e Treccani, cantina e pigiatrici, tufo e Artusi, tènere croccantezze, cremosità empiree, verità della nonna, fondali, forni a legna, caulare e favole per una danza in punta di forchetta. È il divertimento che va in scena, in alternanza come i salti sulla “Campana”, sull’aia e tra le galline, in un panorama condito da invenzioni apparse nelle controre sonnolente sui cuscini di crine; tra esotismo e pozzi di bevute spartite a secchiate; vogate con i remi pesanti, traine e purparelle.
Si zompa sulle «melanzane allo scarpone», l’«uovo biologico a zuppetella», i «ravioli alla Nerano con Provolone del Monaco», le «candele al coniglio con pomodorini affumicati», la «finta genovese con mela annurca».
E si lancia una rete sul «carpaccio di lampuga con insalatina cafona», i «gamberi pane e pomodoro», il «risotto agli agrumi con totani dei Maronti e finocchietto selvatico», la «mescafrancesca gamberi, fagiolini ed erbe amare», il «tonno e parmigiana di melanzane al cacao».
I dolci si presentano come un arcipelago: «cannolo di melanzane con ricotta di bufala e cioccolato», «panna cotta basilico, yogurt di bufala e limone», «vino e percoca con Per’ ‘e palummo», «delizia al limone», «profiterole al tiramisù», «caprese al cioccolato con albicocche».
Non mi perdo, ho con me tante bussole: di mangiafoglie e zappatori, marinai e fruttaioli; dei pastai, e perfino quella del ra'īs d’una tonnara. E provo a condividerle, a orientarvi con una mini galleria di foto. Potrà mai bastare?
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L’albergo del Monastero – Il ristorante
Ischia. Castello Aragonese
Telefono: 081 992435
Preferibile prenotare
Aperto solo la sera. La domenica chiuso
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