Simone De Sanctis e la vertigine dell’infinito femminino

Ho dovuto fare una cosa, prima di scrivere: prendere uno scaletto, aprire l’anta della libreria dove c’è la collezione di Classici dell’Arte, prelevare il libretto dedicato a un ritrattista che mi piace assai, il Bronzino (Agnolo di Cosimo Tori, Firenze 1503 – 1572); scendere, pescare da qualche parte la Storia della Bellezza a cura di Umberto Eco (in evidenza ha un particolare del ritratto di Eleonora di Toledo che è del Bronzino, appunto), e chiudere il cerchio della vertigine che m’ha preso di botto.

Niente paura!

Tutto è accaduto in pochi minuti. Una mezzoretta prima, avevo accolto l’invito a dare un’occhiata alla mostra del fotografo Simone De Sanctis, ospitata fino al 31 maggio 2024 al Monzù Food&Bar sul Piazzale Aragonese di Ischia Ponte (telefono 081 991608), posto d’habitué e d’avventori polilingue detti comunemente turisti; e posto autarchico, soprattutto, aperto all’esposizione della creatività in molte sue dimensioni. Scelta intelligente, che fa levare gli sfizi, pure ottimamente mangerecci.

Se intendete approfondire quel che sottintende il mio stato d’animo adesso, non siate pigri, e seguite le (poco) sibilline indicazioni delle prime righe.

La colpa o, meglio, l’innesco è di un capolavoro che Agnolo firmò nel 1551, il volto della giovanissima Maria de’ Medici (anche questo sta alla Galleria degli Uffizi)

E poi, di una fulminazione per somiglianza. Su, sbirciate pure.

 

Se andate per le spicce, invece, andate da Monzù: qui, poi, in questa pagina, trovate il perché.

Conosco e ammiro Simone De Sanctis come professionista da un bel po’. Nel 2015, grazie a lui, si risolse genialmente il bandolo per la copertina d’un mio libro ormai epocale (Mille orti in mezzo al mare: le ultime copie si trovano solo al Bookstore Mondadori di via Cortese a Ischia).

Dopo averne ammirato i prodotti per la moda e il cibo, non m’era ancora capitato d’imbattermi nello struggente suo lavoro di ritrattista, che fa da sfondo a un impegno costante distribuito anche tra Interior, Still life e molto, molto altro, in giro qua e là, committenza dopo committenza.

E così Simone mi sorprende coi suoi quadri di ragazze giovani, 15 scatti per 16 modelle (anzi, più una, se intendiamo “contare” anche la locandina), allestiti su tre mini percorsi in una lista breve d’alternanze di colore e bianco/nero; trittici, una coppia, eccetera, nuance di luminosità magistrale, libere citazioni e slanci originali facilitati dai soggetti inquadrati. Splendidi.

E così si offre a noi una micro serie in digitale (ha usato la vecchia Nikon e ci ha lavorato da otto anni a questa parte, fino a un mese fa) che manifesta una scelta d’appartenenza all’iconografia superiore. Tra preparazione, studio e postproduzione esemplare, in una tenue ed efficace ricerca di meraviglia che s’affaccia da levigazioni di luce e profondità d’indagine, sbuca l’orientamento alla tridimensionalità mai fine a sé stessa. Mi emoziona per la ragionevolezza del maquillage dei volti, per il disincanto, un pronunciamento di movimento affidato al pensiero che induce l’osservatore alla raffinatezza.

S’intravede il desiderio elegante, la tentazione d’un oblio dell’immanenza corporea oggi dannatamente graffiata dalla volgarità (relativa e abusata, ça va sans dire): le fotografie sprigionano Naturalezza e non artificio seduttivo ammiccante. Una lezione, una scia di pedagogia dell’immagine di cui c’è bisogno. Un segno anti-possesso, quella violenza più subdola che ci sbrana il quotidiano.

E non si va verso la testimonianza di un assoluto, però; si tratta di Ma-donne contemporanee, è vero, ma queste sedici «D» (è il titolo della galleria), sono donne bellissime che sono… tali per la propria composta genetica trasversale, per di più accomunate dall’ischitanità (un pizzico si sciovinismo non guasta) che c’è, ma non sempre; e non per nascita, ma per accadimento.

Si avverte forse la nostalgica evocazione del Sentimento del Bello che David Hume attribuiva alla delicatezza dell’immaginazione. E c’è la necessità di una narrazione col fiato sospeso, di una consapevole e rinnovata idealizzazione, forse d’aristocratica sensualità: è quella che s’intravede solo nella mano dei grandi autori, e che può trasformarsi in un lunghissimo sogno d’amore vero, che tende a restare metafisico… almeno, credo, fino a un certo punto. Il godimento è nel desiderio.

E così, al Monzù, nel rapido girovagare tra sguardi a tratti glaciali, a tratti negati nel gioco delle pose; a volte evanescenti, altre studiati con giocosa voluptade si assiste alla felice rinuncia – definitiva? – alla bugia del selfie e del ritocco; e alla chiusura verso l’ideologia del fitness, alla condanna dell’onnipotenza dell’estetica protesizzata.

C’è una scorporazione sincera dell’eros, una via di purificazione, di esaltazione dell’infinito femminino. Capovolgendo lo schema è una tentazione! Fantastico.

Ne ho avuto la certezza quando – solo al termine del tour - ho letto la poesia “Donna” che accompagna, quasi in filigrana, la mostra di Simone De Sanctis. L’ha scritta nientemeno che Eliomar Ribeiro de Souza, sacerdote brasiliano molto noto, direttore nazionale della Rete Mondiale di Preghiera di Papa Francesco. Incredibile? No. Leggetela: «… in te l’amore più bello, la bellezza più trasparente, l’affetto più puro che mi fa uomo!». La scelta di Simone m’ha convinto. Coerente, coraggioso, eloquente.