Vorrei essere molto breve. Ho atteso finora, a funerali compiuti… Prendiamo la Tragedia, per caso.
La tragedia non esiste se non come narrazione. Da oltre duemila anni non sfugge alla propria regola di paradosso: noi temiamo e sfuggiamo la tragedia ma siamo impossibilitati al silenzio per via delle emozioni. La tragedia non può sfuggire al macabro potere attrattivo e, quando accade, si deve fare racconto (con ogni mezzo). La katastrophḗ, catastrofe, è finimondo e capovolgimento, è l’antica soluzione del dramma, è scioglimento, lutto, scorrimento di lacrime. Fiume di parole sulla scena.
Lancelot Théodore Turpin de Crissé (1782-1859), Veduta del Monte Epomeo da Lacco Ameno, Ischia (1824) - Wallraf Richartz Museum, Köln (Germania). La foto è mia (2015). L’immagine mostra chiaramente una fresca e profonda frana sul versante nordoccidentale della montagna.
Johan Christian Claussen Dahl (1788 - 1857), Scena da Ischia (1820) - KODE Art museums and composer homes, Bergen (Norvegia). La foto è di Enzo Rando. Anche in quest’opera sono ben visibili alcuni fronti di frana alle falde dell’Epomeo.
Osservando i romantici dipinti ottocenteschi proposti in apertura, del francese de Crissé e del norvegese Dahl, abbiamo una cronaca in diretta, una fotografia che risale a due secoli fa, di rovesciamenti della natura poi digeriti dall’ambiente selvaggio a ridosso di casolari un po’ metafisici.
Ciò ammaliava i professionisti del Grand Tour: loro mal celavano il pudore e la fascinazione sensuale per le esperienze che mandavano a memoria (appunto con ogni mezzo: dipinti, disegni, diari, saggi, articoli, libri, lettere, etc.), erano attentissimi ed empatici. Cercateli, studiateli, leggeteli.
Erano, forse, predittivi, se penso al 1910…
Chiesa di san Michele a Monterone, a Forio, epigrafe su marmo evocatrice dell’alluvione del 1910. La foto è mia (2021).
Mi limito a queste citazioni iconiche meno ovvie, senza sconfinare nell’epoca terremotata del 1883, perché le notissime documentazioni di quelle successive macerie sarebbero fuorvianti.
La koinè affamata degli informatori e dei comunicatori - oggi - ha interpretato in modo eccellente gli archetipi di paradiso e dannazione che sono statutari di Ischia e Casamicciola. Nella rappresentazione del fatto del 26 novembre 2022 il branco d’occasione ha dato il meglio di sé: notizie muscolari, anabolizzate seguendo lo sprint emozionale.
Ma lo stile? È stato confermativo di un cliché brutale: all’isola stuprata dall’alluvione è stato riservato il trattamento analogo ai casi di violenza sulle ragazze: «se l’è cercata». Indicibile retroideologia, vero? Eppure è stato affermato. L’eco di questa interpretazione turpe è rimbalzata come il distillato di un voyeurismo cieco, choccante.
È questo il tratto distintivo: il linguaggio sessista che è trasudato dagli umori appiccicaticci di «parlanti» in pantofole che, impreparati e spesso goffi, al caldo dei desk, hanno imposto con cinismo una coltre di pre-giudizi che hanno condizionato molti imbelli inviati sul campo.
Figuracce mascherate nella melma.
Gli ospiti traghettati, anch’essi per caso, sono stati presto colti dal delirio performativo, dalla frenesia che accomuna i pesci predatori immersi nella stessa colonna d’acqua. Nulla di nuovo, va così. Ne so qualcosa fin dal 1980, quando «soc-corremmo» a Teora, Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Villamaina. Legai un microfono alla pala per registrare lo scavo: il mio reportage radiofonico cominciò così, con un rumore ritmato di rocce e metallo, sordo, lento.
Mutate le tecnologie, i risultati – le news – sono stati, ovviamente, senza capo né coda. I report hanno trasformato le truppe tele-comandate in agglomerati di pescetielli di cannuccia. Su di loro, i cappelli di troppe sbiadite «firme». Con esemplari e rare eccezioni.
Si è assistito allo spettacolo prevalente di confusione assoluta, di dissoluta autorevolezza perduta. L’ennesimo prodotto di affastellata approssimazione, di sciatta presunzione e citazioni sovraeccitate.
Tutti i drammi del buio videotrasmessi, a cominciare dal pozzo di Vermicino in cui cadde Alfredino Rampi nel 1981, finiscono con occupare – intasandolo progressivamente - l’immaginario. La cronologia è dettata dall’attesa per lo svelamento dei corpi, una speleologia della visione conturbante. C’è ancora adesso, con una differenza: l’evanescente dittatura del tempo digitale sopprime la consapevolezza analogica. Non si vede l’ora di passare oltre a velocità sempre più folle. E c’è un’indifferenza che condanna. Si deraglia per dimenticare subito, zapping del ricordo.
I morti e i seppelliti, consumati dagli spot e dalle interruzioni, evaporano in un amen. Le «linee editoriali» dei giornali di carta dipendono dal conflitto commerciale, da quanti secondi di etereo spazio possono conquistare nelle rassegne stampa delle tivvù: e appaiono come spirali avvolte intorno ai commentari politici di riferimento, vacui e pari a cuoppi di frittelle lievitate d’alghe surgelate. Gonfie. Inutili. Indigeribili. Lontane. Incomprensibili.
Fanno un pessimo servizio. Come gli amministratori stritolati sul proscenio del dovere d’informare e d’apparire in fasce (tricolori). Sono la certificazione della funzione paradossale del terrore.
Resta la pronuncia razzista, maschilista che evidenzia una lacuna spaventosa nella retorica contemporanea.
Ma l’isola vera e di Gran Cuore non ha manifestato alcuna sindrome di Stoccolma. Non si è invaghita dei carnefici, né ha provato a fargli il filo. Si è semplicemente schifata.
C’è ancora da vedere cosa farà quella parte che è avvezza al colonialismo mediatico di cui s’abbeverano gli infiltrati: stanno tra le trincee spezzettate del perbenismo in prima fila, tra premi e penne dorate, amabili kermesse, cuoricini e meteorici blablabla cerimoniali con selfie di gruppo.
Ci sono due verità personali, al termine di questo excursus assai parziale. Ogni bambina e bambino, uomo e donna che abita l’isola per nascita è davvero un’isola. Vive di un’umanità unica che conosce filogeneticamente il dolore esclusivo della ri-nascita affidata al sangue del proprio sangue. Gli isolani sono accomunati da antigeni primigeni, ctoni e celesti: rimbombi di terra cruda e mare aspro, irradiazioni di sole argilloso, solitario e salmastro, pioggia abbagliante.
Ogni bambino-isola e bambina-isola, donna-isola e uomo-isola ha una storia interiore che è, e resterà impenetrabile per chi indossa un abito diverso e/o continentale.
E poi, la nostra bellezza. La bellezza di Ischia è invisibile agli occhi. Ed è incomunicabile perché lascia senza fiato. La invidiano quelli che non la comprendono, nel senso che non la «tengono», non la possono generare. Non potranno capirla. Ma non stanno zitti. Continueranno tragicamente a tradirla.
RIPRODUZIONE RISERVATA - 09 dicembre 2022