Il sentiero che sale dall’Arenella non è lungo, né troppo accidentato. Zompo rapido tra parracine di pietre laviche dell’Arso, rocce nere compatte che hanno compiuto 720 anni.
Soltanto sette secoli: sono geologicamente neonate, anzi meno. Trasportate a spalla fin qui per definire confini, sono figlie dell’ultima eruzione vista dagli umani di qua, evocano la nostra Natura irritabile e sostengono impettite l’erta dolce che s’infila nella vallata stretta che, tra Monte Vezzi e Campagnano, sulle carte è chiamata «Cà Tavola». Muretti aggregati non troppo massicci s’aprono improvvisi su orti croccanti, frutteti obnubilanti che resistono agli afidi invasori, i nuovi saraceni africani figli della tropicalizzazione climatica.
C’è lo zappato. E c’è un varco preannunciato da un classico espediente di riciclo: una rete metallica da lettino per ragazzi trasformata in cancello, esemplare sistema di riuso d’oggetti non troppo rugginosi che altrove c’invidiano e ancora affascina gli escursionisti d’oggi che imitano i viaggiatori del Grand Tour.
M’inchino a vigneti emozionali che trasudano passione e fatica pazzesca in un’orgia di straordinaria e trimillenaria vinosità fatta di bacche rarissime, nomi perduti di grappoli erotici e onomatopeici, blend creati chicco dopo chicco a mani nude: l’Uva Rilla, Cannamela, Barbera, l’Uva Castagna che è tosta e grossa, come se fosse Hulk.
Mi fa ridere chi pensa che si tratti semplicemente di vitigni antichi dell’isola, protagonisti di una favola banalizzata da un aggettivo riempigengive: autoctono. Eh, no. Qui c’è una tranche di paleobiologia, ci sono relitti sopravvissuti di mosti, lieviti e tannini unici, c’è la storia vera-vera di tremila anni di ubriacature nobilissime: qui arrivò Dioniso in volo diretto dalla Georgia.
Dai Balcani… pam! un balzo al cuore del Mediterraneo. Poi lo hanno chiamato Bacco e tutto diventa più chiaro. Lo scoprirete tra poco.
Sto annusando il mito, ancora acerbo (maturerà come matureranno gli acini), che mi scorre nelle vene da quando mio nonno mi disse che c’erano da trasportare i tini (carichi da 25 chili) in vendemmia. Andavo in quarta elementare…
Ahi, questa è proto-nostalgia, mannaggia.
Faccio una giravolta per allontanare i ricordi, ed eccoli, a braccetto che si materializzano, brillanti il Per’ ‘e palummo, l’Uva Pane Nera, l’Uva Procidana, la Guarnaccia, l’Aglianico, la Forastera… Le spalliere di allevamento sono più alte, rispetto alle tecniche moderne consolidate, per una questione di feeling: l’aerazione, le ore e le diagonali d’insolazione; il rapporto tra fattore umano e pianta l’ottimizzazione del sistema di «pota verde» e di «cappelli» umbriferi; di potatura e raccolta; e poi perché l’eco della tradizione latino-romana di sud-est è ancora assai viva, presente.
Intanto il profumo delle conigliere nascoste nei dintorni e di qualche pollaio, va in sovrapposizione con l’aroma infantile dei palieri, l’erba che alimenta proprio i conigli, e s’infila nella memoria con zaffate di timo selvatico, tra le favette e gli altri legumi e cereali selvatici che fissano l’azoto magico alle radici.
Sto in un’oasi della biodiversità, come direbbe qualcuno per scimmiottare la moda. Ma qui è molto di più. Per avvicinarsi con umiltà a questo microcosmo, almeno una volta bisognerebbe aver succhiato la linfa di una puca (la marza) per saggiarne la freschezza, prima di prepararsi a un’operazione chirurgica decisiva: un innesto «a spacco pieno». Ce l’hai la rafia e il coltellino taglientissimo? Si? E allora, provaci.
Tanto per cominciare, la biodiversità siamo noi.
La campagna vera è anche questo: resiste al cemento e alle brutture che non sono distanti. E non mollerà. E ho accanto il suo custode, una guida d’eccezione, Attilio Mancusi, che ha ereditato l’orgoglio per la fatica (comunque) felice dal papà Giovangiuseppe. Siamo stati mattinieri. Gli ho rubato un’ora di lavoro nei campi, e non posso indugiare troppo nel mio innamoramento per questa terra che si squaglia nella poesia. Divento lezioso? E che posso farci? Se foste al mio posto, anche senza la stessa voglia di narrazione meravigliata, fareste di peggio…
Mentre lo sguardo si perde in un alberone di prugne san Giovanni, tra pioppi in lontananza, acacie e fichi, ciliegi e albicocchi, riannodiamo i fili delle cantine scavate anche per decine di metri nel maschione compatto della montagna (sul versante del mare c’è invece lapillo puro) e che punteggiano l’areale collinare: sono decine e decine. Cellai profondi e spettacolari, a temperatura controllata con le ventarole calcolate da contadini-ingegneri di sapienza assoluta.
E si sommano a quelle costruite più in basso, con il loro bollino architettonico identitario: la volta a botte sul tetto. Ce n’è una più prossima ai Pilastri che mi incuriosisce: mette in mostra una pianta rettangolare con una cupola pronunciata che poggia su una base ampia, leggermente più lontana del solito dal perimetro di muri portanti costruiti con lastre a faccia vista e massi squadrati e piatti. La struttura – sul lato corto è pressoché spiovente - ricorda molto i capannori dell’isola del Giglio ed evoca analoghi insediamenti mediterranei sparsi fino a Cipro.
Meditazione e geografia, alla via così.
Questa abbondanza di cantine, di corti, di appezzamenti fertilissimi ha condizionato le abitudini popolari nel senso più godereccio possibile: qui un tempo era (più o meno) sempre festa come testimoniano anche i racconti dei viaggiatori dal Settecento all’inizio del Novecento che erano letteralmente scimuniti dall’accoglienza; le donne apparecchiavano molto spesso la tavola all’esterno delle case, l’inebriamento era una prassi e l’alta frequenza di prelibatezze ha finito con il cambiare la toponomastica.
Da tutto questo ben di dio deriva appunto Cà Tavola, ovvero Casa Tavola. Non ci sono dubbi. Mistero svelato.
Me lo conferma Sara Costa, la moglie di Attilio. Insieme ai figli, Carmen e Raffaele, a casa loro, a Cà Tavola, dunque, hanno realizzato il sogno della famiglia, aprendo il ristorante «La sosta di Bacco» (tel. +39 340 716 0513), che si chiama così in assoluta coerenza con quanto finora vi ho detto.
Ci si arriva, superate le case popolari di Campagnano, voltando a destra prima della stradina per Piano Liguori: si procede a piedi per 50 metri, il viottolo è cieco e si entra all’improvviso nella dimensione pubblico-privata di questi amici cari.
Li ammiro molto: non si fermano un attimo, hanno una forza atavica e un’intelligenza fina. La creatività non manca: si sono anche inventati un «food truck» che staziona nel parcheggio di via Michele Mazzella. Lì preparano panini ruspanti pensati in sintonia con un pubblico veloce ma sempre attento ai sapori.
Chi è più esigente va su, a casa. Ed è come se si fidanzasse – proprio in casa - con l’autenticità…
Le prove? La sala interna è ricavata dalla cantina – guarda un po’! – con il palmento, tra gli angoli romantici e i segni di piccone lasciati da chi scavò tutto a forza di braccia. Il caminetto e gli arredi datati non stonano con la sobrietà necessaria.
All’esterno, l’angolo della brace confina con l’universo abitato – a seconda delle stagioni – da fave e carciofi e patate e fagioli zampognari e così via, a zero centimetri dalle… tavole imbandite sui vari livelli di una terrazza coloratissima dai fiori e protetta da vele che contrastano amabilmente col cielo notturno e il paesaggio mosso in prospettiva, da sud a nord.
Il godimento pulsa in circolo con i sapori. S’affacciano gli antipasti, con il fiore di zucca imbottito e la crocchetta verace; il lardo supremo e il caciocavallo cavalcato dalla composta di gelsi neri. Gli agrumi si mettono a sfruculiare i ravioli o, in alternativa, ecco i bucatini con il sugo di coniglio che sfoggiano la livrea classicheggiante. Il coniglio è in versione forse eccessivamente brumata per me, ma è questione di gusto consolidato dall’abitudine domestica tramandata.
Ne parlerò con Sara prossimamente. L’apparizione delle ciliegie di fuoco appena colte, infine, si mette in gara con un’esplosione di dolci davvero azzeccati che fanno socchiudere gli occhi per una gioia atemporale che non si pronuncia per non disperderla. Intorno, si percepisce sempre il tocco vivace e spiritoso di chi conduce il gioco con dedizione. Chiamala atmosfera.Piace anche a Rosanna. Mi fermo a pizzicare le guance di Bacco, il piacione.
-
Il pane (e la madre) della vita< Indietro
-
Il coniglio all’ischitana e il segreto della pipernaAvanti >