L’ultimo vip a «impazzire» per il gusto del coniglio all’ischitana, è stato un intenditore di peso, l’attore Gerard Depardieu. Ma, facendo un salto dentro e poi oltre i confini cinematografici,
c’è un estimatore storico della pietanza che incarna la cucina nella più estesa delle isole partenopee: è il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis. Gastronomo per passione, il patron degli azzurri l’altro giorno, per celebrare la visita del cardinale Sepe nel ritiro di Dimaro, ha chiesto al cuoco di preparare per l’ospite d’onore e i calciatori il cibo-cult della festa campagnola, il coniglio made in Ischia. Ha dettato gli ingredienti e, attraverso un filo diretto con l’amico ischitano depositario della ricetta, Agostino D’Ambra della trattoria Il Focolare, ha trasformato il cimento saporito in un allegro successo. Non è però dato sapere se De Laurentiis sia riuscito, tra gli altopiani trentini, a procurarsi l’erbetta che conferisce al piatto la fresca mineralità ruspante che lo rende unico: la piperna, ovvero il timo serpillo. C’è chi la sostituisce con il basilico o la confonde – orrore – con la maggiorana, creando distorsioni sull’identità del condimento principe. La verace piperna cresce sulle «parracine», gli assolati e un po’ salati muri a secco, e scivola giù in una cascata di serpentelli dalla cresta delle pietre tufacee incastonate senza malta: sono opere d’arte rustica che, contenendo terrazze e terrapieni, garantiscono il drenaggio alle piante e l’inconfondibile carica profumata della nostra essenza aromatica. Le condizioni microclimatiche, per ottenere la piperna perfetta, si trovano nel versante ovest di Ischia, le dorsali della cima dell’Epomeo, tra Frassitelli e Montecorvo, Panza e Forio.
Sono questi, del resto, gli areali dove è ancora cacciato il coniglio selvatico, pronipote di quello sbarcato con i Fenici tremila anni fa. Alimentato con frasche e fogliame, è pure allevato nelle mitiche fosse conigliere: nei dintorni la piperna cresce anche spontanea e, spesso, è parte integrante della dieta primordiale del coniglio stesso. Così si assiste a un circuito virtuoso di insaporimento doppio delle carni, prima e durante la cottura. Quanti aspiranti gourmet coniglieschi conoscono questo segreto? E sanno, inoltre, che non bisogna esagerare con il pomodoro; o che c’è un’abissale differenza tra l’uso della cipolla bianca dolce e del più canonico «aglio vestito»? Insomma, il sacro totem mangereccio insulare merita rispetto, e non tutti possono definire «all’ischitana» la personale interpretazione. S’è visto a Masterchef, dove spuntavano addirittura blasfemi peperoni. Il momento della verità sarà comunque quello dell’abbinamento con il vino marinaro dell’isola: Biancolella o Per’ ‘e palummo, meglio in versione rosato. Se non funziona, il piatto è sbagliato. C’è solo una giustificazione per le molte variazioni sul tema. Ogni famiglia nel corso dei secoli ha reinventato una tradizione, rivendicandola come originaria: questa è ghiotta materia per antropologi. Ma qual è il canone da (presunto) manuale? Il coniglio tagliato in dieci pezzi, con una testa d’aglio intera, viene rosolato a tocchi nella sartana, la padella di rame. Poi si sposta nel «tiano» di terracotta dove cuoce, per mezz’ora, con calore e umidità uniformi, insieme a vino bianco, pomodorini e un po’ di concentrato; e ovviamente la piperna. Le interiora, i cosiddetti «‘mbrugliatelli» avvolti nel prezzemolo, e il fegato si aggiungono dopo la rosolatura. Il sugo denso condirà i bucatini.
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